lunedì 29 settembre 2014

"COLIBRI' " DI EMILIA VILLORESI.


"Un vecchio e un bambino si preser  per mano, e andarono insieme incontro alla sera".

Questo immortale verso di Guccini mi ha sempre commosso, e anche se adesso, in questi tempi cinici e spietati, proliferano battute tristi (il vecchio è un pedofilo, ha ha) una delle cose più belle del creato è l'amicizia  tra gli anziani e i fanciulli, due categorie accomunate più di quanto non si creda, nel loro bisogno di attenzioni, nel loro essere le persone più deboli e indifese della società.

Purtroppo adesso l'amicizia tra vecchi e bambini è un qualcosa di sempre più raro, visto che molti genitori non insegnano più il rispetto ai loro figli; ma non è questa la sede di pistolotti morali, questo discorso serviva solo da introduzione per il libro che oggi vi presento.

Emilia Villoresi, nata a Milano da una famiglia molto importante, fu una narratrice e poetessa senza troppe fortune editoriali, ormai quasi dimenticata. Nota soprattutto per aver tradotto per Vallardi l'incantevole saga di "Bibi, una bimba del nord" di Karin Michaelis (e per averne scritto un seguito apocrifo, Bibi si sposa) la Villoresi scrisse in tarda età anche due romanzi brevi per ragazzi, pubblicati da Mursia in un unico volume; i due testi sono "Lauretta", delicata ma convenzionale storia di un'orfanella che da il titolo al volume, e "Colibrì", di cui parlerò in questa occasione.
 
Un bellissimo ritratto dell'autrice giovane
 

Siamo negli anni sessanta, in pieno Boom economico, nella grigia e triste periferia di Milano, quella di quartieri come Metanopoli e Quarto Oggiaro.

In questo importante periodo storico le grandi città del nord scoprivano l'immigrazione di massa dal mezzogiorno ma anche dalle campagne limitrofe, e principiarono a nascere i quartieri dormitorio, con palazzoni decisamente tetri nei quali trovavano (e trovano) alloggio decine di famiglie; iniziò così una nuova realtà, in piena controtendenza nel paese provinciale e accogliente  per eccellenza, delle famiglie che abitavano gomito e gomito senza conoscersi, un cambiamento irreversibile e oggi sempre più una consuetudine.
 
Il volume Mursia che raccoglie i due romanzi brevi.
 
 

In uno di questi edifici abita una giovane vedova con una bambina, Eliana detta Lea. Una bambina vivace, simpatica, dolcemente impertinente, un'adorabile monella piena di voglia di vivere. Ma un brutto giorno Lea contrae il terribile virus della Poliomelite (un vero flagello al tempo, oggi per fortuna solo un brutto ricordo) che la lascia senza l'uso delle gambe. La bambina, lasciata sola da tutti i suoi amici che l'hanno pian piano dimenticata, anziché esibire un poco credibile ottimismo alla Pollyanna diventa una creatura astiosa, irascibile e piena di livore, che tratta la madre con studiata crudeltà, in pagine abbastanza dolorose e dure per un libro destinato ai ragazzi.

Ma un giorno, nella vita della piccola Lea, compare  un dolce e sensibile vecchietto, il signor Timoteo chiamato "Colibrì" perché piccolo piccolo. Questo ometto curvo e dall'aria buona, oggetto di scherzi non sempre simpatici da parte dei bambini del quartiere, che sopporta tutto con il sorriso, ha in realtà una storia dolorosa alle spalle; ha attraversato due guerre, nella prima ha perso una gamba e nella seconda il figlio è dato per disperso in Russia, e ormai stanco e solo ha abbandonato il paesino del Veneto in cui ha vissuto una vita facendo il restauratore e ha preso un modesto alloggio nella grande città, in modo da passare i suoi ultimi nell' anonimato di quei formicai umani.

Il vecchio ha però una ricchezza; alcune decine di libri lasciatigli in eredità da un antico commilitone a cui aveva salvato la vita a Caporetto poi perso di vista, il quale poi diventerà un libraio ambulante proprio tra le piazze di Milano, e che dopo la sua morte lascerà tutto il suo patrimonio cartaceo, i libri ancora invenduti, al compagno d'armi mai dimenticato, il quale allevierà la sua solitudine grazie ad essi.

Un giorno come tanti Colibrì, che abita nello stesso caseggiato di Lea,  scorge la madre della fanciulla che piange, e quando il vecchio con premura le si avvicina la donna non esita a narrare la propria storia a quello sconosciuto dall'aria rassicurante, e a chiedergli perfino di fare compagnia alla figlia mentre lei va a servizio (cosa oggi non più credibile nemmeno come espediente narrativo...).

In ogni caso, il vecchio si reca dalla fanciulla, che dapprima lo accoglie con malagrazia ma, come in ogni favola che si rispetti (perchè in fondo questa è una favola) , tra i due cresce poi un'amicizia sempre più intima e forte, tanto che lei giungerà a chiamarlo nonno. I due emarginati avranno così il rispettivo conforto della loro amicizia, Colibrì leggerà a Lea  fiabe dal sapore Perodiano (che occuperanno un buon terzo del testo), e la ragazzina inizia così a uscire dal cupo baratro di rabbia in cui era sprofondata.

Il finale poi (è pur sempre un libro per ragazzi..) riserverà poi bellissime sorprese a entrambi i protagonisti, con un finalone lietissimo proprio nel giorno di natale.

Per cui, opera da un lato ingiudicabile nelle sue ingenue forzature romanzesche, ma documento importante di una Milano proto-metropoli e soprattutto storia di alta moralità, che dovrebbe assolutamente essere riscoperta e proposta come libro per le vacanze ai ragazzi della scuola media; un libro come "Colibrì" è un vero toccasana per l'anima, tanto più in un'epoca come la nostra in cui vecchi e bambini non sono mai stati così lontani. Io a 32 anni, sono stato felice di passare un'ora e mezzo tra le pagine di questa storia incantevole, e credo che molte persone sensibili, di ogni età, lo sarebbero altrettanto.

 

-VOTO; 8 (soprattutto alle buone intenzioni dell'autrice)

-REPERIBILITA' ;  un libro fuori catalogo, ma non raro; potreste trovarlo in una qualsiasi bancarella a pochi euro.

 

 

lunedì 22 settembre 2014

SIGNORINETTE / SIGNORINETTE NELLA VITA, DI WANDA BONTA'


Dunque, a imitare Piccole donne ci hanno provato in molte, e in molti. Ma come tutti i libri miracolosi e irripetibili, e quello della Alcott lo era (ricordo che l’edizione inglese di Little Women da noi fu suddivisa in due libri, Piccole donne e Piccole donne crescono, ma nell’originale esso era un solo romanzo in due parti) quasi nessuno ci è riuscito. Dico quasi perché, anche se nessuno ormai lo sa, anche se la cultura e il sistema scolastico Italiano hanno fatto di tutto per farla cadere nell’oblio, a imitare con grazia  la Alcott  a talvolta a farla preferire al lettore odierno per una maggiore leggerezza e un tocco di sensibilità moderna in più fu una scrittrice Italiana, la meneghina Wanda Bontà.
 
l'autrice
 

 Essa era una delle narratrici sentimentali in voga soprattutto all’epoca del fascismo (assieme a Willi Dias, Luciana Peverelli, Milly Dandolo, Liala e Giana Anguissola, poi specializzatasi in narrativa per ragazzi) poi distrutte dalla critica del dopoguerra che le accusò di piaggeria verso il regime in quanto non denunciavano e non criticavano, come se cercare di creare un mondo migliore e scevro dalla misera politica del tempo fosse una colpa; ma se la Bontà oggi è ancora minimamente ricordata, lo è per due libri del tutto diversi dai graziosi ma molto convenzionali (ne ho letti uno che non mi ha lasciato particolarmente entusiasta) romanzi melò tipici suoi, ovvero un romanzo che  raccontasse la quotidianità di alcune ragazze del ceto medio e medio alto della Milano dei telefoni bianchi e delle camicie nere. 

Fu così che nel 1939, tra mille difficoltà e l’angoscia crescente per il conflitto bellico ormai alle porte, che la Bontà, bontà sua (scusate, non ho resistito) ripensò al capolavoro Alcottiano e ai suoi meravigliosi personaggi e decise di traslare il tutto nel capoluogo Lombardo, città ancora a misura d’uomo, di tram poco affollati, di persone che si conoscono per sentito dire anche se abitano in quartieri diversi.

A dire il vero, le piccole donne del primo libro, anzi le "signorinette" (che dolce parola, così musicale e simpatica) sono soltanto tre e non sono sorelle, e hanno tutte sui diciassette anni, qualcuno in più delle sorelle March. Ma in esse troviamo, mescolati ad hoc, i caratteri delle 4 eroine della Alcott.
 
 

C’è Renata, la bella, svampita, benestante Renata che prende la vita con (troppa) leggerezza, che è consapevole del suo fascino e, anche se è in fondo è casta come una monaca, non rinuncia a flirtare con coloro che le piacciono, fino a mettersi nei guai creando sciocchi equivoci con la sua condotta sconsiderata (ai tempi, ora la rimprovererebbero per troppa castigatezza, ovviamente), e che si può considerare un misto tra Meg (per l’aspetto già da donna fatta e la sicurezza con cui accudisce le amiche più timide) ed Amy (per i danni derivati dalla sua vezzosità).

Poi c’è Paola, detta Paolona perché abbastanza cicciottella, una ragazza con un cuore proporzionato alla sua mole. Un personaggio dolcissimo, che fa una tenerezza incredibile e che purtroppo, alla fine del primo libro, morirà dolcemente come è vissuta. Questo personaggio per alcuni aspetti, triste fine inclusa, può ricordare la mia carissima Beth, anche se Paola al contrario di Beth ha voglia di vivere, di imporsi, e si odia per il suo aspetto.

Il mio personaggio preferito, quello che se letto da ragazzo mi avrebbe rapito il cuore diventando la ragazza su carta dei miei sogni (mentre leggendo il libro adesso che ho 31 anni la immagino come la sorellina che  tanto avrei voluto, come è giusto che sia) è però Iris, bionda, magra e delicata come lo stelo di un giunco, scrittrice in erba e grande sognatrice ad occhi aperti, sensibilissima ma anche altruista.

Iris, che vive con la madre adorata e un patrigno che le vuole bene ma non la capisce, è di gran lunga il personaggio migliore del libro, un perfetto mix tra Jo (per la determinazione nel voler diventare scrittrice) Beth (per la sua dolcezza innata) e Meg (per la capacità di capire i problemi delle sue più frivole amichette). Interessante poi il rapporto tra  Iris e Gisella, una compagna di scuola bellissima, misteriosa ( è arrivata da chissà dove solo nell’ultimo anno scolastico e non da confidenza a nessuno a parte Iris) e più adulta ma soprattutto matura di lei; leggendo, si intuisce abbastanza palesemente che per Gisella Iris provi un sentimento ben più profondo che quello dell’amicizia, un elemento che è in perfetta armonia col carattere della ragazza (anche Jo March, per me, nonostante non abbia ovviamente flirt con nessuna ragazza, è sempre parsa bisessuale, e il fatto che poi si sposi e abbia figli non significa un bel niente, è solo un trionfo della mentalità inculcatale sulla sua vera natura) e che ne aggiunge sfumature assai interessanti, per uno degli amori saffici più belli e commoventi che mi sia mai capitato di leggere, un amore a senso unico (Gisella si sposerà ben presto con un Barone andandosene da Milano) ma totale, che secondo me non è possibile fraintendere. Anche per questo aspetto quanto mai attuale il libro meriterebbe di essere riproposto.

Ma in ogni caso il debito con la Alcott  si estingue ben presto, in quanto i personaggi di Signorinette vivono di vita propria; il primo libro ha perlopiù un andamento leggero e brillante da commedia dei telefoni bianchi, con passi esilaranti come Renata che sbaglia diverse volte numero di telefono finendo per chiamare sempre un povero igienista dentale, col quale avrà schermaglie talvolta irresistibili. E poi le conversazioni  tra le ragazze, i timori per gli esami prima e per l’approssimarsi della guerra poi, un fitto e resistente tessuto di dialoghi che finiscono per diventare il miglior documento possibile della vita delle ragazze Milanesi dell’epoca.

Il primo romanzo termina con la morte(suppongo per idropisia) di Paola e la fine dell’anno scolastico.

Il secondo libro, “Signorinette nella vita”, scritto nel 1942 in pieno conflitto da un’autrice angosciata che cercò, come farà Iris, nella scrittura una distrazione e una speranza, è un romanzo migliore del primo, più maturo, meno dispersivo e meglio strutturato.
 


 
 
Sono passati tre anni, ritroviamo Renata e Iris ormai diplomate, ormai quasi donne. Renata è fidanzata felicemente con quel povero igienista dentale da lei amabilmente vessato, mentre Iris è sola soletta e passa le giornate dando ripetizioni e scrivendo racconti che nessuno vuole pubblicare.

La guerra ormai è entrata nella quotidianità di Milano e della sua gente; si parla di soldati al fronte con angoscia crescente, di allarmi antiaerei, di viveri razionati. L’autrice, con sforzo mirabile quanto commovente, cerca di infondere speranza e ottimismo in ogni capitolo, nonostante ancora nessuno potesse prevedere durata ed esito del conflitto.

Ma la guerra,  comunque, resta solo uno sfondo minaccioso che riguarda gli uomini, le signorinette possono ancora vivere la loro vita di tutti i giorni, fare progetti per l’avvenire, vivere nuove avventure come l’insegnamento nelle colonie estive per ragazzi ripetenti o corsi di ginnastica di un mese per tenersi in forma, da buone balilla.

E se Renata avrà il suo bel da fare per difendere il suo fidanzamento (ovviamente col suddetto giovane dentista) da una suocera terribile (come nel primo libro, Renata è protagonista delle scenette più divertenti) Iris, dimenticata ormai Gisella, sarà corteggiata addirittura da due uomini, entrambi ufficiali, uno bello e impossibile che però le fa capire di non dovere aspettarsi troppo da lui e un altro che non ha il fascino del primo ma che proverà a conquistarla con pazienza e discrezione.

Oltre a queste due protagoniste, l’ottimo romanzo offre anche altre storie parallele di personaggi minori ma non per questo meno riusciti, e quando anche il secondo libro, che ha un bellissimo finale aperto nel quale si fa capire come i sogni delle due ragazze potrebbero anche non sopravvivere alla terribile guerra attorno a loro, purtroppo termina, non si può che provare una commozione mista a dispiacere e angoscia. Chissà se la guerra ha risparmiato le signorinette e i loro amati, se tutti alla fine hanno potuto contribuire alla ripartenza dell’Italia libera da guerre e dittature. Io credo di si, Wanda Bontà sopravvisse, e sicuramente i suoi personaggi non potevano lasciarla da sola, non credete?.

 

REPERIBILITA'; Il primo romanzo è ancora nel catalogo Mursia e quindi ordinabile, il secondo libro va invece cercato online, ma non è difficilissimo procurarselo.

martedì 16 settembre 2014

"NAJA TRIPUDIANS" DI ANNIE VIVANTI.


 

Talvolta, nell’entusiasmante esistenza del lettore onnivoro, capita di trovare delle vere perle dove non le si aspetta, e soprattutto di trovare il libro in cui si aveva bisogno in quel preciso momento.

In una delle sere piovose e  autunnali dello scorso, incredibile Luglio, quello che chiedevo alla mia libreria era un testo che pur essendo realistico fosse distante dal mondo conosciuto, che rappresentasse vera vita ma osservata attraverso una nebbia sottile, che tutto ammanta e sfuma.

A regalarmi questo miracolo di una sera è stata Annie Vivanti, figura pressoché unica nel panorama letterario Italiano. Nata nel 1866 a Londra, figlia di un Garibaldino Italiano di fede Ebraica e di una scrittrice Tedesca, Annie era un esempio di Meltin’ pot anticipato di cento anni. Annie crebbe in Inghilterra e poi si spostò, conducendo una vita bohemien ed errabonda, fu cantante di caffè concerto e attrice mancata ,  ma nel suo destino c’era l’Italia e in special modo il suo maggior poeta dell’epoca, Giosuè Carducci, che prese la giovane donna sotto la sua ala protettiva ( oltre a farne un’amante assai carina e ben più giovane dell’attempato vate) introducendola nell’ambiente letterario del tempo. In Italia la Vivanti si affermò come poetessa, drammaturga e romanziera, fino a un triste declino che la vide spegnersi, sola e dimenticata già al tempo, nel 1942, nel pieno della follia delle leggi razziali.
 
Una giovanissima autrice.
 

La Vivanti fu un talento purissimo  ma discontinuo, mal coltivato in quanto donna operante in Italia. Ci ha lasciato dei romanzi  di ottima fattura, talvolta di maniera e talvolta folgoranti, aggettivo che calza a pennello per il suo romanzo più noto, “Naja tripudians”, scritto nel 1921 all’apice della sua parabola creativa, un libro troppo forte e spiazzante per essere capito e accettato all’epoca, ma che oggi meriterebbe una diffusione su vasta scala oltre che tutto il nostro affetto.

Non è difficile parlare di questo libro, ma è difficile collocarlo in qualche genere letterario, in quanto dotato di una forte componente onirica che lo fa viaggiare per suo conto, cosa che è la sua forza e, per molti, il suo limite.

L’inizio, sfavillante e coloratissimo, riporta alla mente quei trasognati racconti di Edgar Allan Poe che si intitolano col nome di una donna, come “Berenice”, “Morella” e soprattutto lo splendido “Eleonora”. In un desolato villaggio dello Yorkshire, dall’improbabile nome di Wild- Forest, abitano in una magione denominata Rose village il dottor Frances Harding e le sue due figlie Myosotis (nome greco del fiore nontiscordardime) e Leslie, rimasti soli al mondo dopo che la moglie del dottore morì di parto dando alla luce la piccola Leslie. Il dottor Harding è un misantropo segnato da una giovinezza trascorsa nelle colonie della Malesia e dell’Indonesia, che passa le sue giornate cercando di scoprire una cura alla lebbra, ossessionato dal ricordo di una ragazza indigena da lui amata al tempo, che vista da vicino si rivelò essere portatrice di questo terribile morbo.

Myosotis e Leslie crescono, diventano due fanciulle bellissime, di una grazia quasi ultraterrena. Vivono col padre e con una fedele governante, sfuggono le relazioni sociali e hanno letto un solo libro, Jane Eyre, sul quale hanno costruito il loro castello di sogni. In pratica, delle 170 pagine del libro, cento e passa ci raccontano la vita interiore delle due fanciulle, di Myosotis bruna, volitiva e profonda e di Leslie, la ragazza/bambina, biondissima, dalla grazia quasi innaturale e totalmente incapace di capire il mondo attorno a lei.
 
 

Questo mondo incantato si spezza quando una tenuta confinante a Rose cottage viene affittata da Lady Randolph Grey, una sedicente gentildonna grassa e dalle braccia lunghe come quelle dei cobra (i Naja tripudians del titolo) che il dottor Harding ha descritto alle figlie in numerose occasioni. E con quelle braccia corrotte Lady Grey ghermisce le due fanciulle, invitandole nella sua casa a Londra durante le feste natalizie, ma questa casa in realtà si rivela un sordido covo di pervertiti cocainomani per i quali l’unico piacere è calpestare fiori purissimi come le due fanciulle; e di colpo i toni idilliaci della prima parte si trasformano in un cupo e disperato apologo alla De Sade, dove le efferatezze però sono solo suggerite. E se una delle due sorelle riuscirà a sfuggire dalle spire della Naja, l’altra ne viene irrimediabilmente ghermita.

Dunque questo romanzo è  un dolce sogno che diventa pian piano un incubo terribile, dal quale non c’è risveglio; ma il miracolo di questo scritto è che l’incubo riesce ad avere le sfumature del sogno, e il sogno i contorni dell’incubo, in quanto le raccapriccianti storie di malattie tropicali narrate dal dottor Harding riescono a insozzare il candore delle fanciulle e di ciò che le circonda, mentre nelle tremende scene nella casa di Lady Grey gli aguzzini sono gentili, garbati, hanno modi quasi da gentiluomini, e tutto si sfuma, tutto diventa impercettibile, e il lettore non può far altro che sfogliare furiosamente le pagine, sempre più emozionato, per vedere se, come e chi riuscirà a uscire da quel labirinto onirico intessuto con una seta finissima quanto resistente.

Un’ opera, poi, piena anche di pezzi di bravura letteraria, che regala piacevoli momenti di eccellente lettura.

In definitiva, Naja tripudians non avrà i requisiti necessari per essere considerato un capolavoro, ma resta un vero e proprio gioiello isolato della letteratura Italiana inspiegabilmente scomparso dalla memoria collettiva, forse perché troppo anglosassone nello stile, forse solo perché troppo sfrontato, forse perché, semplicemente, i critici Italiani rifiutavano e rifiutano i libri divertenti ed emozionanti (specialmente scritti da donne) relegandoli in una immeritata, assurda serie B, un pregiudizio che deve essere sorpassato una volta per tutte; la Vivanti, assieme a Neera, Giana Anguissola e altre esimie narratrici nostrane, deve essere riscoperta prima che sia veramente troppo tardi.

 

lunedì 8 settembre 2014

“PATRICIA BRENT, ZITELLA” DI HERBERT JENKINS.


I libri belli, quando lo sono veramente, prima o poi tornano in circolazione. Non sempre, purtroppo, ma spesso accade, soprattutto grazie a piccole case editrici (Polillo, Astoria, Jo March, Iperborea) che puntano su una qualità costante, e per farlo devono riesumare, fortunatamente in nuove traduzioni, romanzi di un passato più o meno remoto. E alle case editrici sopra citate aggiungo molto volentieri la Elliott, che recentemente ci ha riproposto lo splendido “Patricia Brent, spinster” romanzo del 1918 scritto in punta di penna da un autore di razza  e di un garbo, un umorismo e una leggerezza che spiccano decisamente anche in quel periodo di vacche grasse per noi lettori di buon gusto. Il romanzo è pubblicato con una bella copertina e non costa nemmeno troppo, ma io ho e mi tengo stretta l’edizione del 1931 della collezione Salani, dal titolo “Patrizia Brent, zittella” con due T, e con una GENIALE sovraccoperta ripresa dall’originale Inglese.
 
copertina poi riprodotta nell'edizione Salani.
 

Come detto, romanzo del 1918, ossia al culmine di quella assurda guerra (che di grande aveva ben poco, a parte la stupidità) che costò milioni di vite e che in un certo qual modo cementò i ceti sociali non solo del Regno unito, mettendo per la prima volta a contatto nobili e popolino, iniziando così un processo paritario che si sarebbe concluso solo dopo un’altra guerra e la presa di coscienza degli anni sessanta. Questo preambolo serve per far capire come questo romanzo probabilmente, senza quel conflitto, non sarebbe stato forse accettato dalla gente, in quanto narra dell’amore appassionato e puro di un Lord verso una segretaria,  non con i toni stucchevoli della favola per adulti ma bensì attraverso una frizzante e brillantissima commedia degli equivoci.
 
L'edizione Elliott attualmente in libreria
 

Patricia Brent è una ventiquattrenne (ma per i tempi già attempata..) di origini rispettabili quanto umili, il cui unico parente in vita è una zia noiosamente moralista. Lavora come segretaria per un giovane politico dalle idee confuse ,e non ha mai amato un uomo in vita sua; per cui, pur essendo carina e intelligente, è già quasi da considerarsi una vecchia zitella inveterata, cosa peraltro abbastanza verosimile per il periodo.

E tale la considerano le zitellone di vecchia data della modesta e affollata pensione nella quale Patricia vive,  e un bel giorno la ragazza le sorprende, non vista, a sparlare di lei in tal senso. Ferita nell’orgoglio, Patricia decide allora di inventarsi di sana pianta di avere un fidanzato maggiore dell’esercito, con tanto di finta uscita tutta in ghingheri. Quello che non si immagina è che le pettegole la tallonino fino al ristorante, ritrovandosele così alle calcagna! e Patricia, che aveva calcolato di consumare una mesta cenetta in solitudine per poi tornarsene a casa concludendo la commedia, si trova messa con le spalle al muro, prigioniera della sua stessa bugia a fin di bene. Ma proprio al culmine della tensione, la ragazza nota un ufficiale, giovane e bello, che  consuma la sua cena tutto solo, e senza esitare lo avvicina e lo implora di stare al gioco, di fingersi il suo fidanzato per una sera. E il giovane ufficiale,  di nome (Lord) Peter Bowen, che oltre a essere bello è ricco ed è un pari del regno, sta al gioco fin troppo, e questo la volitiva e diciamocelo, un poco frigida Patricia non lo avrebbe voluto davvero, e decide di respingere senz’altro le insistenti avances del Lord. Ma…

Insomma, come avrete capito siamo in piena commedia rosa, a lieto fine obbligatissimo. Ma nonostante si sappia che tutto andrà bene, non potremo fare a meno di innamorarci della sensibile e umorale Patricia, del tenero e determinato Lord Peter ( quanti Lord Peter nella letteratura Inglese!) della di lui incantevole sorella Tanagra detta Tan che farà di tutto per convincere la riluttante Patricia a capitolare, l’ adorabile lady Peggy, quasi una flapper, e anche del sensibile Godfrey Elton, innamorato di Tan ma senza il coraggio di palesarsi. Ma la vera anima, l’impalcatura che regge tutto il libro e forse lo rende memorabile, è il superbo studio di caratteri degli abitanti della pensione Galvin; l’autore ci presenta, con grande umanità e simpatia, un microcosmo di donne sfiorite che passano le giornate a occuparsi della vita degli altri non avendone una propria, e di mesti travet di mezza età che ormai si contentano di un buon pasto quotidiano, o di qualcuno che rida alle loro trite facezie. E se specialmente le vecchie pettegole possono risultare alquanto irritanti, alla fine, ci dice l’autore, meritano di essere compatite nella loro solitudine. In questo romanzo non esistono cattivi, solo persone inacidite, ma che alla fine sono sinceramente felici per il raggiante futuro che attende Patricia.

Certo, forse per essere nel 1918 c’è  un’eccessiva allegria nei personaggi e la guerra è un’eco fin troppo lontana (tranne un drammatico capitolo nel finale, dove durante un’incursione aerea Tedesca Patricia riceve una inattesa prova d’amore), e questi nobili sono tutti un filino troppo alla mano e disponibili a mischiarsi con la gente comune; ma tutto questo passa in secondo piano, quello che all’epoca contava è che l’Inghilterra martoriata dalla guerra aveva bisogno di un libro del genere, aveva bisogno di qualcuno che li incitasse a sognare, che gettasse il cuore oltre l’ostacolo, parlando di matrimoni e di pace. E noi, quasi cento anni dopo, abbiamo bisogno di questo libro per sognare; non siamo in guerra, solo in pieno caos, e ritrovare un mondo di gente quadrata, sensibile e coraggiosa ci fa stare meglio. Per questo, da 96 anni, “Patricia Brent zitella” continua ad essere un’efficacissima medicina per l’anima, di nuovo disponibile in tutte le farmacie…pardon, librerie.
 
VOTO; 9
 
REPERIBILITA'; Ottima, in tutte le librerie, basta ordinarlo.

mercoledì 3 settembre 2014

“IL DESERTO DEL CUORE” DI MARY WESTMACOTT (AGATHA CHRISTIE)



Ok, come primo post grande sorpresa; Agatha Christie.

Non c’è niente da fare, quest’autrice mi perseguita; avevo aperto Assassini e gentiluomini con un articolo su di lei, e, tanto per ribadire una continuità ho deciso di aprire anche questo nuovo blog con un articolo che la riguardasse, anche se stavolta non parlerò di lei come giallista, ma vi parlerò di Mary Westmacott, l’anima rosa di una grande lady del romanzo Inglese del novecento, non solo poliziesco.
 
 
un ritratto "rosa" dell'autrice
 

Da quando Mondadori, dal 2010 in poi,  li ha riproposti tutti e sei nella collana “Oscar emozioni” in molti ormai sanno che Agatha Christie, la regina del Mystery, scrisse anche dei romanzi sentimentali sotto lo pseudonimo di Mary Westmacott, una specie di vacanza tra un delitto e l’altro, simile in questo ai romanzi storici che Conan Doyle scriveva per “disintossicarsi” da Sherlock Holmes.

Il primo, “Il pane del gigante”, è del 1930, quando l’autrice non era ancora una stella di livello planetario, e gli altri cinque si susseguirono piuttosto casualmente fino al 1957.

Di questi libri, tutti piacevoli e interessanti, quello che senz’altro è il più bello e il più notevole dal punto di vista letterario è “Absent in the spring”, ovvero “assente nella primavera”, citazione Shakesperiana che noi lettori Italiani evidentemente non meritavamo, visto che il testo è uscito col ben più prosaico titolo “Il deserto del cuore”.
 

 
Dunque, se gli altri romanzi sentimentali di Agatha sono libri più o meno canonici, questo Absent in the spring è quasi un libro anti-romantico, tanto che ero indeciso se parlarne o meno su questo blog.

La storia, in pratica, è inesistente; niente love story palpitanti, niente gentildonne che fanno cadere guanti nè militari desiderosi di mostrare il loro coraggio in guerra e in amore. No, qui abbiamo una signora di mezza età, Joan Scudamore, sposata con Rodney, avvocato di provincia di discreta fama, e con tre figli a loro volta sistemati; la prima, la cinica e fredda Averil, vive a Londra col marito agente di cambio, il secondogenito Tom, indolente e sognatore,  gestisce un aranceto in Rhodesia e ha sposato una ragazza del posto che gli Scudamore non hanno mai nemmeno visto e la figlia più piccola, la sensibile Barbara, vive col marito a Baghdad.
 
 

Proprio da quest’ultima, convalescente da un’intossicazione alimentare, si è recata Joan nell’intento di badare a lei, al giovane William Wray e al loro figlioletto Mopsy. La sua presenza sembra far bene alla giovane coppia, e la donna se ne va tranquilla. Sulla via del ritorno, però, le piogge costringono Joan a rimanere bloccata in una remota stazione in pieno deserto, al confine tra Siria e Iraq. La donna si trova quindi completamente sola, in mezzo ad indigeni che non capisce  e non la capiscono, costretta in una stanza buia e scomoda, senza nemmeno un libro da leggere (che situazione orrenda, sarei in crisi nera pure io!) e quindi non le resta altro da fare che passeggiare nel deserto e pensare, pensare e pensare; e pian piano il lettore viene trascinato nel flusso di coscienza di Joan, rivive le sue esperienze, il suo mondo fatto di granitiche certezze, il suo sentirsi in pace con se stessa e i suoi cari. Ma, d’improvviso, si affacciano alcuni interrogativi sempre più inquietanti; perché la figlia Barbara e il genero non volevano parlare della malattia di lei e restavano sgomenti ogni volta che Joan toccava l’argomento? E perché i figli si sono sempre confidati con il padre e non con lei, che pure era ben più spesso accanto a loro? Partendo da questi punti interrogativi, Joan, in una spietata e lucida autoanalisi, smantella da sola tutte le sue certezze, rivelandosi per una creatura arida, profondamente egoista e fin troppo miope. E il treno che, arrancando faticosamente, arriverà fino a quell’avamposto sperduto, troverà una passeggera profondamente cambiata, finalmente consapevole di tutti i castelli di carta da lei stessa eretti, chiedendosi se non sia troppo tardi per cambiare vita, per rimediare al male fatto, seppur involontariamente, al marito Rodney e ai figli.

Quindi, un romanzo fortemente sentito, forse autobiografico, senz’altro sincero. Naturalmente la Christie non era Virginia Woolf, il suo stream of consciousness è molto più all’acqua di rose, ma il libro rapisce, appassiona e riesce perfino  a turbare. Un romanzo da regalare alle molte, troppe persone  (di entrambi i sessi) che credono davvero, quasi sempre assurdamente, di essere stati ed essere coniugi e genitori perfetti e inappuntabili. E il libro contiene anche un profondo insegnamento, un monito che mi sento di condividere; non è mai troppo tardi per cambiare, per migliorarsi, per capire chi ci circonda. E se lo scopo del libro era di far pervenire questo messaggio, allora la grande Agatha ha fatto centro come nei suoi più diabolici plot polizieschi, e noialtri lettori dobbiamo cavarci rispettosamente il cappello di fronte al talento multuforme della signora Christie, pardon Westmacott.
 
 
 
-VOTO ; 9
-REPERIBILITA'; ottima, si trova in tutte le librerie.
 

martedì 2 settembre 2014

PRESENTAZIONE


Salve a tutti, cari amici e care amiche. Come già saprà chi frequenta l’altro mio blog sul giallo classico “Assassini e gentiluomini” , mi chiamo Omar, ho 31 anni (diciamo 32, và..)  e vivo a Firenze.

Ora, alcuni di voi si chiederanno perché abbia aperto un altro blog avendone già uno in piena attività; semplicemente perché i miei interessi letterari non si fermano solo alla letteratura poliziesca, ma spaziano anche in altri generi come i romanzi avventurosi, i “feuilleton” o “sensational novel” che dir si voglia, le fiabe e i romanzi fantastici, i romanzi definiti “per l’infanzia” ma in realtà capolavori universali fino alla letteratura sentimentale più raffinata e di qualità, dove l’amore si mescola all’ironia e al tocco di costume.

Tutto questo e oltre troverete nel mio nuovo blog; il comune denominatore sarà il romanticismo in tutte le sue sfumature, dalla più delicata alla più sanguigna; tutto ciò che è romantico, dalla lettera d’amore fino al duello in punta di fioretto, vi troverà spazio. Non vi troverete letteratura contemporanea, non per un qualche pregiudizio fine a se stesso ma semplicemente perché non la seguo.

Particolare cura sarà dedicata anche ad alcune collane storiche, come i Classici per ragazzi Mursia o la collezione dei romanzi Salani, con la leggendaria “Biblioteca delle signorine" apripista di tutte le collane di romanzi rosa che ancora oggi continuano a proliferare.

E ampio spazio troveranno, oltre agli indiscussi e alle indiscusse  capofila anglosassoni, anche autrici Italiane ingiustamente e crudelmente dimenticate come Annie Vivanti, Wanda Bontà, Giana Anguissola, Neera, Luciana Peverelli etc.

Insomma, credo che  ci divertiremo, almeno lo spero. Come per l’altro mio blog, non si insegnerà niente o si spaccherà il capello in quattro, si cercherà solo di invogliare alla lettura e, citando la frase finale di un capostipite della letteratura romantica, ma se invece riuscissi ad annoiarvi credete che non s’è fatto apposta (che citazione originalissima…) .