Talvolta,
nell’entusiasmante esistenza del lettore onnivoro, capita di trovare delle vere
perle dove non le si aspetta, e soprattutto di trovare il libro in cui si aveva
bisogno in quel preciso momento.
In
una delle sere piovose e autunnali
dello scorso, incredibile Luglio, quello che chiedevo alla mia libreria era un
testo che pur essendo realistico fosse distante dal mondo conosciuto, che
rappresentasse vera vita ma osservata attraverso una nebbia sottile, che tutto
ammanta e sfuma.
A
regalarmi questo miracolo di una sera è stata Annie Vivanti, figura pressoché
unica nel panorama letterario Italiano. Nata nel 1866 a Londra, figlia di un
Garibaldino Italiano di fede Ebraica e di una scrittrice Tedesca, Annie era un
esempio di Meltin’ pot anticipato di cento anni. Annie crebbe in Inghilterra e
poi si spostò, conducendo una vita bohemien ed errabonda, fu cantante di caffè
concerto e attrice mancata , ma nel suo
destino c’era l’Italia e in special modo il suo maggior poeta dell’epoca,
Giosuè Carducci, che prese la giovane donna sotto la sua ala protettiva ( oltre
a farne un’amante assai carina e ben più giovane dell’attempato vate) introducendola
nell’ambiente letterario del tempo. In Italia la Vivanti si affermò come
poetessa, drammaturga e romanziera, fino a un triste declino che la vide
spegnersi, sola e dimenticata già al tempo, nel 1942, nel pieno della follia
delle leggi razziali.
Una giovanissima autrice.
La
Vivanti fu un talento purissimo ma
discontinuo, mal coltivato in quanto donna operante in Italia. Ci ha lasciato
dei romanzi di ottima fattura, talvolta
di maniera e talvolta folgoranti, aggettivo che calza a pennello per il suo
romanzo più noto, “Naja tripudians”, scritto nel 1921 all’apice della sua
parabola creativa, un libro troppo forte e spiazzante per essere capito e
accettato all’epoca, ma che oggi meriterebbe una diffusione su vasta scala
oltre che tutto il nostro affetto.
Non
è difficile parlare di questo libro, ma è difficile collocarlo in qualche
genere letterario, in quanto dotato di una forte componente onirica che lo fa
viaggiare per suo conto, cosa che è la sua forza e, per molti, il suo limite.
L’inizio,
sfavillante e coloratissimo, riporta alla mente quei trasognati racconti di
Edgar Allan Poe che si intitolano col nome di una donna, come “Berenice”,
“Morella” e soprattutto lo splendido “Eleonora”. In un desolato villaggio dello
Yorkshire, dall’improbabile nome di Wild- Forest, abitano in una magione
denominata Rose village il dottor Frances Harding e le sue due figlie Myosotis
(nome greco del fiore nontiscordardime) e Leslie, rimasti soli al mondo dopo
che la moglie del dottore morì di parto dando alla luce la piccola Leslie. Il
dottor Harding è un misantropo segnato da una giovinezza trascorsa nelle
colonie della Malesia e dell’Indonesia, che passa le sue giornate cercando di
scoprire una cura alla lebbra, ossessionato dal ricordo di una ragazza indigena
da lui amata al tempo, che vista da vicino si rivelò essere portatrice di
questo terribile morbo.
Myosotis
e Leslie crescono, diventano due fanciulle bellissime, di una grazia quasi
ultraterrena. Vivono col padre e con una fedele governante, sfuggono le
relazioni sociali e hanno letto un solo libro, Jane Eyre, sul quale hanno
costruito il loro castello di sogni. In pratica, delle 170 pagine del libro,
cento e passa ci raccontano la vita interiore delle due fanciulle, di Myosotis
bruna, volitiva e profonda e di Leslie, la ragazza/bambina, biondissima, dalla
grazia quasi innaturale e totalmente incapace di capire il mondo attorno a lei.
Questo
mondo incantato si spezza quando una tenuta confinante a Rose cottage viene
affittata da Lady Randolph Grey, una sedicente gentildonna grassa e dalle
braccia lunghe come quelle dei cobra (i Naja tripudians del titolo) che il
dottor Harding ha descritto alle figlie in numerose occasioni. E con quelle
braccia corrotte Lady Grey ghermisce le due fanciulle, invitandole nella sua
casa a Londra durante le feste natalizie, ma questa casa in realtà si rivela un
sordido covo di pervertiti cocainomani per i quali l’unico piacere è calpestare
fiori purissimi come le due fanciulle; e di colpo i toni idilliaci della prima
parte si trasformano in un cupo e disperato apologo alla De Sade, dove le
efferatezze però sono solo suggerite. E se una delle due sorelle riuscirà a
sfuggire dalle spire della Naja, l’altra ne viene irrimediabilmente ghermita.
Dunque
questo romanzo è un dolce sogno che
diventa pian piano un incubo terribile, dal quale non c’è risveglio; ma il
miracolo di questo scritto è che l’incubo riesce ad avere le sfumature del
sogno, e il sogno i contorni dell’incubo, in quanto le raccapriccianti storie
di malattie tropicali narrate dal dottor Harding riescono a insozzare il
candore delle fanciulle e di ciò che le circonda, mentre nelle tremende scene
nella casa di Lady Grey gli aguzzini sono gentili, garbati, hanno modi quasi da
gentiluomini, e tutto si sfuma, tutto diventa impercettibile, e il lettore non può
far altro che sfogliare furiosamente le pagine, sempre più emozionato, per
vedere se, come e chi riuscirà a uscire da quel labirinto onirico intessuto con
una seta finissima quanto resistente.
Un’
opera, poi, piena anche di pezzi di bravura letteraria, che regala piacevoli
momenti di eccellente lettura.
In
definitiva, Naja tripudians non avrà i requisiti necessari per essere
considerato un capolavoro, ma resta un vero e proprio gioiello isolato della
letteratura Italiana inspiegabilmente scomparso dalla memoria collettiva, forse
perché troppo anglosassone nello stile, forse solo perché troppo sfrontato,
forse perché, semplicemente, i critici Italiani rifiutavano e rifiutano i libri
divertenti ed emozionanti (specialmente scritti da donne) relegandoli in una
immeritata, assurda serie B, un pregiudizio che deve essere sorpassato una
volta per tutte; la Vivanti, assieme a Neera, Giana Anguissola e altre esimie
narratrici nostrane, deve essere riscoperta prima che sia veramente troppo
tardi.
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