martedì 16 settembre 2014

"NAJA TRIPUDIANS" DI ANNIE VIVANTI.


 

Talvolta, nell’entusiasmante esistenza del lettore onnivoro, capita di trovare delle vere perle dove non le si aspetta, e soprattutto di trovare il libro in cui si aveva bisogno in quel preciso momento.

In una delle sere piovose e  autunnali dello scorso, incredibile Luglio, quello che chiedevo alla mia libreria era un testo che pur essendo realistico fosse distante dal mondo conosciuto, che rappresentasse vera vita ma osservata attraverso una nebbia sottile, che tutto ammanta e sfuma.

A regalarmi questo miracolo di una sera è stata Annie Vivanti, figura pressoché unica nel panorama letterario Italiano. Nata nel 1866 a Londra, figlia di un Garibaldino Italiano di fede Ebraica e di una scrittrice Tedesca, Annie era un esempio di Meltin’ pot anticipato di cento anni. Annie crebbe in Inghilterra e poi si spostò, conducendo una vita bohemien ed errabonda, fu cantante di caffè concerto e attrice mancata ,  ma nel suo destino c’era l’Italia e in special modo il suo maggior poeta dell’epoca, Giosuè Carducci, che prese la giovane donna sotto la sua ala protettiva ( oltre a farne un’amante assai carina e ben più giovane dell’attempato vate) introducendola nell’ambiente letterario del tempo. In Italia la Vivanti si affermò come poetessa, drammaturga e romanziera, fino a un triste declino che la vide spegnersi, sola e dimenticata già al tempo, nel 1942, nel pieno della follia delle leggi razziali.
 
Una giovanissima autrice.
 

La Vivanti fu un talento purissimo  ma discontinuo, mal coltivato in quanto donna operante in Italia. Ci ha lasciato dei romanzi  di ottima fattura, talvolta di maniera e talvolta folgoranti, aggettivo che calza a pennello per il suo romanzo più noto, “Naja tripudians”, scritto nel 1921 all’apice della sua parabola creativa, un libro troppo forte e spiazzante per essere capito e accettato all’epoca, ma che oggi meriterebbe una diffusione su vasta scala oltre che tutto il nostro affetto.

Non è difficile parlare di questo libro, ma è difficile collocarlo in qualche genere letterario, in quanto dotato di una forte componente onirica che lo fa viaggiare per suo conto, cosa che è la sua forza e, per molti, il suo limite.

L’inizio, sfavillante e coloratissimo, riporta alla mente quei trasognati racconti di Edgar Allan Poe che si intitolano col nome di una donna, come “Berenice”, “Morella” e soprattutto lo splendido “Eleonora”. In un desolato villaggio dello Yorkshire, dall’improbabile nome di Wild- Forest, abitano in una magione denominata Rose village il dottor Frances Harding e le sue due figlie Myosotis (nome greco del fiore nontiscordardime) e Leslie, rimasti soli al mondo dopo che la moglie del dottore morì di parto dando alla luce la piccola Leslie. Il dottor Harding è un misantropo segnato da una giovinezza trascorsa nelle colonie della Malesia e dell’Indonesia, che passa le sue giornate cercando di scoprire una cura alla lebbra, ossessionato dal ricordo di una ragazza indigena da lui amata al tempo, che vista da vicino si rivelò essere portatrice di questo terribile morbo.

Myosotis e Leslie crescono, diventano due fanciulle bellissime, di una grazia quasi ultraterrena. Vivono col padre e con una fedele governante, sfuggono le relazioni sociali e hanno letto un solo libro, Jane Eyre, sul quale hanno costruito il loro castello di sogni. In pratica, delle 170 pagine del libro, cento e passa ci raccontano la vita interiore delle due fanciulle, di Myosotis bruna, volitiva e profonda e di Leslie, la ragazza/bambina, biondissima, dalla grazia quasi innaturale e totalmente incapace di capire il mondo attorno a lei.
 
 

Questo mondo incantato si spezza quando una tenuta confinante a Rose cottage viene affittata da Lady Randolph Grey, una sedicente gentildonna grassa e dalle braccia lunghe come quelle dei cobra (i Naja tripudians del titolo) che il dottor Harding ha descritto alle figlie in numerose occasioni. E con quelle braccia corrotte Lady Grey ghermisce le due fanciulle, invitandole nella sua casa a Londra durante le feste natalizie, ma questa casa in realtà si rivela un sordido covo di pervertiti cocainomani per i quali l’unico piacere è calpestare fiori purissimi come le due fanciulle; e di colpo i toni idilliaci della prima parte si trasformano in un cupo e disperato apologo alla De Sade, dove le efferatezze però sono solo suggerite. E se una delle due sorelle riuscirà a sfuggire dalle spire della Naja, l’altra ne viene irrimediabilmente ghermita.

Dunque questo romanzo è  un dolce sogno che diventa pian piano un incubo terribile, dal quale non c’è risveglio; ma il miracolo di questo scritto è che l’incubo riesce ad avere le sfumature del sogno, e il sogno i contorni dell’incubo, in quanto le raccapriccianti storie di malattie tropicali narrate dal dottor Harding riescono a insozzare il candore delle fanciulle e di ciò che le circonda, mentre nelle tremende scene nella casa di Lady Grey gli aguzzini sono gentili, garbati, hanno modi quasi da gentiluomini, e tutto si sfuma, tutto diventa impercettibile, e il lettore non può far altro che sfogliare furiosamente le pagine, sempre più emozionato, per vedere se, come e chi riuscirà a uscire da quel labirinto onirico intessuto con una seta finissima quanto resistente.

Un’ opera, poi, piena anche di pezzi di bravura letteraria, che regala piacevoli momenti di eccellente lettura.

In definitiva, Naja tripudians non avrà i requisiti necessari per essere considerato un capolavoro, ma resta un vero e proprio gioiello isolato della letteratura Italiana inspiegabilmente scomparso dalla memoria collettiva, forse perché troppo anglosassone nello stile, forse solo perché troppo sfrontato, forse perché, semplicemente, i critici Italiani rifiutavano e rifiutano i libri divertenti ed emozionanti (specialmente scritti da donne) relegandoli in una immeritata, assurda serie B, un pregiudizio che deve essere sorpassato una volta per tutte; la Vivanti, assieme a Neera, Giana Anguissola e altre esimie narratrici nostrane, deve essere riscoperta prima che sia veramente troppo tardi.

 

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